Stilista di moda e vicepresidente della FCCR (la Fondazione culturale ispirata nel nome a suo padre Carlo), attraverso la quale promuove campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne; organizzatrice di eventi di beneficenza a sostegno dell’infanzia e cause umanitarie.
Daniela Rambaldi è questoe molto altro: soprattutto, è custode dell’eredità che il famoso genitore ha lasciato a tutti noi dopo una vita e una carriera passate a creare personaggi straordinari e indimenticabili per il grande schermo.
La giornalista Ilaria Solazzo ha intervistato, per noi, Daniela, figlia del celebre Carlo Rambaldi
- Tuo padre, nato in un piccolo paese in provincia di Ferrara, non aveva nulla se non un grande sogno: il cinema. Con determinazione, sacrificio e costanza ha saputo trasformarlo in realtà e ancora oggi - attraverso la Fondazione creata da te e tuo fratello - è fonte di ispirazione. Cosa ti senti di voler dire a quanti coltivano la sua stessa ambizione?
«Consiglio di fare tutto il necessario affinché la propria vocazione, qualsiasi essa sia, si tramuti in un mestiere vero e proprio. Solo così andare a lavorare tutti i giorni non peserà e anzi, darà un certo senso alla vita».
- "Daniela Rambaldi, memoria vivente di un genio". Così ti hanno definita pubblicamente alcuni giornalisti. Ti ci ritrovi in questo pensiero?
«Assolutamente si. Mi sento "custode" del suo patrimonio artistico, dei pensieri, e delle parole e mi assumo la responsabilità di divulgare quanto posso alle nuove generazioni. L'arte, qualsiasi essa sia, da - allo stesso tempo - un senso di leggerezza e profondità alla vita e ha la capacità di offuscare le malvagità del mondo. Attraverso l'arte si possono trovare ispirazione e stimoli».
- Dinnanzi ai tuoi occhi Carlo Rambaldi, è stato un papà speciale, che disegnava alieni e mostri giganti... ti va di raccontarci qualche aneddoto che i fan ancora non conoscono?
«La mia infanzia è stata davvero speciale. Ho avuto la fortuna di crescere accanto a un padre che sognava e poi era in grado di realizzare ciò che aveva creato la sua immaginazione. Un giorno mi disse proprio questo: "tu puoi realizzare tutto ciò che sogni: dimmi cosa hai sognato stanotte". Risposi: "una Barbie che aveva la mia faccia" e lui mi disse: "vedrai che tra qualche giorno il tuo desiderio si avvererà". Passò una settimana, e una sera mio padre mi portò una bambola con le sembianze del mio volto. Io sbalordita, dissi; "Papa', dove l'hai presa?" Lui rispose: "L'ho presa dal tuo sogno e l'ho creata con le mie mani e con la creta. Poi ho cotto la creta e l'ho colorata. Adesso hai una Barbie con il tuo volto"».
- È ancora vivo e nitido nella tua memoria il ricordo della telefonata di Steven Spielberg, una sera a mezzanotte. Raccontaci...
«Si, molto nitido proprio perché era tarda sera e quella telefonata mi fece sussultare. Ero già a letto quando squillò il telefono sul mio comodino. Un po' spaventata corsi in camera dei miei genitori. Mio padre aveva la cornetta del telefono in mano e mi fece segno con il dito di fare silenzio. "Carlo, I have a big problem. Can youmeet me tomorrow?". Alla fine della brevissima telefonata ricordo che mio padre disse a mia madre, "Steven mi chiama sempre all'ultimo minuto, spero che ne valga davvero la pena avermi buttato giù dal letto". Ecco, a distanza di 41 anni...direi proprio che ne è valsa la pena!».
- Non tutti sanno che il primo modellino del famosissimo extraterrestre E.T. fu una statuetta di creta di circa 30 centimetri. Appena dopo averlo realizzato, tuo padre lo sottomise al tuo sincero giudizio di dodicenne. Puoi raccontare un estratto di quella chiacchierata familiare anche a noi?
«Era chiaro dalla sceneggiatura che l'alieno dovesse interagire con dei bambini, che dovevano a loro volta proteggerlo e nasconderlo dai grandi. La sfida, però, era coniugare l'aspetto di un alieno e un essere indifeso e fragile. La chiave del successo del personaggio giaceva proprio in questa sottile linea. A mio padre serviva il parere di una bambina proprio per carpire l'emozione che poteva destare l'alieno con quelle sembianze. E così mi chiese di andare nel laboratorio dove mi mostro il primo modello di E.T. A prima vista dissi che era bruttino, un po' goffo, dall'aspetto buffo tra un vecchietto e una tartaruga; però era simpatico, soprattutto per la forma del suo fondoschiena, un po' come quello di Paperino. "Quindi, ti pare simpatico?", mi chiese. Quella fu la chiave, la simpatia».
- Il 7 dicembre di quest’anno “E.T.”, inteso come film, compirà 41 anni, eppure sembra essere uscito ieri, tanto è vivo il suo ricordo. Non sembra neanche un effetto speciale ma un personaggio vivo, reale. Quale è il messaggio che la pellicola, ormai un cult, ancora oggi comunica alle nuove generazioni?
«Che non esistono confini nell'amicizia, nell'amore incondizionato. Nella storia, il concetto di amicizia è chiaro e limpido come lo sono quelli di inclusione e accettazione delle diversità».
- Un progetto molto caro al tuo cuore riguarda l'idea di dar vita al museo Carlo Rambaldi. Pensi possa realizzarsi concretamente a Roma?
«Potrebbe, perché no! Al momento stiamo valutando di riportare tutto a Los Angeles presso il Museo degli Oscar a Hollywood. In Italia è tutto molto burocraticamente difficile. Grandi progetti rischiano sempre di non essere portati a termine per qualche motivo, ovvero questioni di interesse. Noi siamo sempre aperti a nuove proposte o nuovi inviti. Ma forse è destino che il suo patrimonio debba "ritornare a casa", la sua amata Hollywood».
- E.T. è, secondo la mia lettura, un personaggio che incarna la diversità. Sei d'accordo?
«Certamente incarna la diversità. Non solo fisicamente ma sotto ogni punto di vista. E.T. rispecchia il mondo intero; è particolare nella fisicità, viene da un mondo sconosciuto, non parla la lingua, non conosce le usanze, non sa come comunicare, è fragile. Incarna tutti noi quando andiamo in un luogo nuovo, di cui sappiamo poco. Ci sentiamo vulnerabili in simili circostanze, no?».
- Ritieni che l’Italia sia stata una buona promotrice del messaggio di Carlo Rambaldi?
«Questa è una domanda a doppio taglio! L'Italia avrebbe potuto e potrebbe fare di più, certamente. Al momento mi sento di dire che la Fondazione a lui intitolata è l'unica vera promotrice del messaggio di Carlo Rambaldi, anche se da qualche anno devo dire che i nostri format divulgativi, formativi, ed educativi stanno riscuotendo molto successo. Vedremo nei prossimi mesi come andrà il raccolto».
- Un tuo sogno nel cassetto è.…?
«Il mio sogno nel cassetto oggi è vedere realizzato un prodotto audiovisivo sulla vita di mio padre. Raccontarlo non solo sotto l'aspetto professionale, ma soprattutto come uomo, padre, e nonno. E poi dare la possibilità a tutti i bambini e ragazzi di frequentare un workshop, il "Rambaldi Experience", dove potranno provare la soddisfazione nel plasmare con le mani le loro idee».
- Se potessi fare un regalo all'umanità per cosa opteresti?
«Regalerei a ogni bambino la possibilità di diventare ciò che sogna di essere. Un cucciolo a cui viene data la possibilità di sognare, da grande farà grandi cose. Così il mondo, pian piano, diventerebbe più equo, migliore».