di Massimo Reina
C’è qualcosa di patologico nella narrazione che i maggiori quotidiani italiani – e non solo – offrono al loro pubblico. È un’informazione che odora di parzialità lontano un miglio, un modo di raccontare la realtà che seleziona vittime di serie A e vittime di serie B, a seconda della convenienza politica ed editoriale.
Prendiamo l’ultimo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele: tre donne israeliane liberate dai miliziani palestinesi contro 90 prigionieri palestinesi rilasciati da Israele. Una notizia che, a rigor di logica, avrebbe dovuto occupare il medesimo spazio sulle prime pagine. E invece no: la stampa si è lanciata in un’operazione di santificazione delle tre israeliane, scavando nei dettagli più insignificanti delle loro vite – nome, cognome, hobby, il cane che le aspettava a casa – come se fosse in corso un casting per una serie Netflix. E i 90 palestinesi? Invisibili.
Tra questi 90 “irreperibili” c’erano 69 donne e 21 minori, tra cui Khalida Jarrar, leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e un ragazzo storpiato dalle torture israeliane. A questo aggiungiamo che molti di loro portavano addosso i segni di maltrattamenti, acciacchi, anni di carcere senza cure adeguate. Una scena che avrebbe meritato un approfondimento dettagliato, o almeno una menzione decente. Ma no, meglio spostare lo sguardo altrove.
Perché? Perché raccontare il volto umano di un prigioniero palestinese significherebbe smontare la narrazione manichea in cui Israele è sempre la vittima e i palestinesi sempre i carnefici. E allora meglio ignorarli, o al massimo relegarli a una breve di tre righe in fondo a pagina 27. Così funziona il razzismo mediatico: l’indignazione è a senso unico, tarata per scatenarsi solo se la vittima è “funzionale” a un certo tipo di narrazione.
Questa parzialità diventa ancora più scandalosa se si guarda al contesto. Israele continua a perpetrare, da decenni, violazioni sistematiche dei diritti umani nei confronti dei palestinesi, compresi i minori. Parliamo di torture, arresti arbitrari, detenzioni amministrative, tutto documentato da organizzazioni come Amnesty International. Eppure, nel dibattito pubblico italiano, tutto questo si perde in un silenzio assordante.
Prendete il caso di Ahmad Manasra, arrestato quando era ancora un bambino e sottoposto a torture che hanno distrutto la sua infanzia. O i circa 170 palestinesi che oggi languono nelle carceri israeliane per crimini commessi quando erano minori, spesso senza un processo equo. Questi fatti non trovano spazio sulle prime pagine. Perché? Forse perché raccontarli significherebbe ammettere che Israele non è solo la “democrazia del Medio Oriente”, ma anche un sistema che pratica l’apartheid.
E non è solo una questione di violenze fisiche. È una discriminazione sistemica che passa anche per il sistema giudiziario. Se un cittadino israeliano – ebreo, naturalmente – viene accusato di violenze contro un palestinese, il trattamento che riceve è ben diverso: diritti garantiti, processi equi, pene spesso ridicole. Al contrario, ai palestinesi si nega persino il diritto di protestare contro l’occupazione.
La verità è che il sistema israeliano non si limita a occupare terre, ma occupa anche le coscienze, con una propaganda che si infiltra ovunque, perfino nelle redazioni dei giornali occidentali. E finché i media continueranno a riprodurre questa narrativa tossica, Israele avrà campo libero per continuare a fare ciò che vuole.
E allora chiediamoci: fino a quando tollereremo questo silenzio? Fino a quando ci accontenteremo di un’informazione che non informa, ma deforma? Perché, se continuiamo a girarci dall’altra parte, saremo complici anche noi. E il prezzo da pagare non sarà solo la dignità del popolo palestinese, ma la nostra stessa integrità morale.