di Massimo Reina
Se pensate che la democrazia americana sia una festa di libertà e trasparenza, sedetevi: sto per rovinarvi il sogno. Lungi dall’essere un processo limpido e guidato dal popolo, la scelta dei candidati alla presidenza – soprattutto tra i Democratici – sembra uscita da un manuale di lobbying aziendale.
Immaginate una stanza piena di lobbisti e funzionari di partito, con le mani sporche di accordi e interessi. È lì che si decide il futuro della Casa Bianca. Il popolo? Rimane fuori dalla porta.Una favola edificante, certo. Ma dietro le quinte, come sempre, c’è il vecchio trucco del prestigiatore: mentre il pubblico guarda la mano scintillante della democrazia, l’altra infila candidati preconfezionati da un’élite di potere che con il popolo ha poco a che fare.
Moore ha costruito la sua carriera come lobbista di gruppi che difendono gli interessi di colossi come Lyft, Boeing e Black Lives Matter, accumulando anche contratti milionari per le sue consulenze. O James Roosevelt Jr., nipote dell’iconico presidente Franklin D. Roosevelt, ora impegnato a proteggere interessi nel settore sanitario. E non mancano superdelegati con curriculum altrettanto sospetti: consulenti di Lockheed Martin, Google, Meta, Pfizer, ExxonMobil, JP Morgan Chase e persino TikTok.
Questi sono gli "arbitri" della democrazia americana. Questi sono i custodi della successione presidenziale.
L’esempio più grottesco? Nel 1968, la convention democratica nominò Hubert Humphrey come candidato senza che si fosse nemmeno presentato alle primarie. E oggi, a quanto pare, la storia potrebbe ripetersi: un gruppo di addetti ai lavori potrebbe selezionare il prossimo leader mondiale senza che gli elettori abbiano una sola parola in capitolo.
Ma tutto questo, naturalmente, viene raccontato come una procedura "normale". È normale che Maria Cardona, lobbista del Dewey Square Group (che lavora per Meta e Google), abbia voce in capitolo. È normale che Marcus Mason, consulente di Google e Novo Nordisk, decida chi deve guidare il paese. È normale che il popolo americano si riduca a spettatore in una partita truccata.
In questa commedia degli equivoci, la democrazia si trasforma in un club esclusivo dove l’ingresso è riservato a chi ha il biglietto giusto: quello fornito dai grandi interessi economici. Il resto – primarie, convention, slogan – è solo una scenografia accuratamente studiata per far credere a milioni di persone che la loro voce conti qualcosa.
Dunque, la prossima volta che sentirete parlare di "elezioni democratiche", ricordatevi che, a Washington, il vero voto non si tiene nelle urne, ma nei consigli d’amministrazione e nelle sale dei lobbisti. E non importa chi vince, perché a vincere sono sempre loro.