di Massimo Reina
Nel grande circo della lotta al cambiamento climatico, c’è sempre meno spazio per le illusioni e sempre più per i retroscena. L’ultima notizia è di quelle che fanno scalpore: BlackRock, il colosso degli investimenti con oltre 9 trilioni di dollari in gestione, ha deciso di uscire dalla Net Zero Asset Managers Initiative, il club dei big della finanza che si erano impegnati a combattere la crisi climatica. Un abbandono rumoroso che segue quelli, altrettanto clamorosi, di JP Morgan, Citi e Bank of America. Insomma, sembra che il presunto slancio ambientalista di Wall Street stia sfiorendo più in fretta delle promesse elettorali di un politico qualsiasi.
Ma davvero qualcuno ci aveva creduto? L’idea che i giganti del capitalismo più sfrenato, quelli che per decenni hanno finanziato petrolio, carbone e gas, potessero diventare paladini dell’ambiente era già di per sé un ossimoro, qualcosa che suona male quanto "una guerra per la pace". Adesso, con le loro defezioni, è venuta a galla una verità lampante: la battaglia contro il climate change è diventata più una questione di moda e marketing che di reale impegno politico ed economico.
La greenwashing economy
Per anni ci hanno venduto la narrativa dei “finanzieri illuminati”. BlackRock, sotto la guida di Larry Fink, aveva promesso mari e monti: basta finanziare progetti che danneggiano l’ambiente, investimenti green per un futuro sostenibile, bla bla bla. Salvo poi scoprire che quegli stessi soggetti continuavano a pompare soldi nei combustibili fossili. Secondo un rapporto di Reclaim Finance e Urgewald del 2022, BlackRock ha investito 259 miliardi di dollari in società legate ai combustibili fossili tra il 2016 e il 2021. Altro che sostenibilità: il clima è diventato una scusa per raccogliere capitali e fare greenwashing su scala planetaria.
E ora che il vento sta cambiando, anche quei pochi impegni di facciata si stanno sciogliendo come i ghiacciai artici. Negli Stati Uniti, il movimento anti-ESG (ambientale, sociale e di governance) ha preso piede: alcuni stati governati dai repubblicani, come Texas e Florida, hanno minacciato azioni legali e boicottaggi contro le aziende che si mostrano troppo “attiviste” sul clima. Risultato? Gli stessi colossi che sbandieravano il loro amore per l’ambiente hanno deciso che era meglio tirarsi indietro.
Gli obiettivi mancati e le contraddizioni della COP
E mentre i giganti della finanza fanno retromarcia, il resto del mondo si arrabatta con piani e promesse che sanno di farsa. La COP 28 di Dubai, con la sua presidenza affidata a Sultan Al Jaber, CEO della compagnia petrolifera nazionale degli Emirati Arabi Uniti, è l’esempio perfetto di questa ipocrisia. Come chiedere a un pirata di fare il giudice nel tribunale della marina. Secondo il rapporto del Climate Action Tracker, le emissioni globali sono ancora sulla strada per un aumento della temperatura di 2,7°C entro il 2100, ben lontano dagli obiettivi di Parigi.
E non dimentichiamo l’Unione Europea, che tra una direttiva e l’altra si è scoperta dipendente dal gas naturale (russo fino a ieri, americano oggi). Secondo il rapporto del Global Energy Monitor, solo nel 2022 sono stati approvati progetti per la costruzione di nuove infrastrutture per il gas che, se realizzati, bloccheranno il continente in una dipendenza dai combustibili fossili per decenni.
Chi paga davvero?
In tutta questa commedia, chi paga il prezzo più alto? I cittadini. Ci hanno detto che per salvare il pianeta dovevamo accettare le bollette salate, il caro benzina, e una transizione ecologica che sembra più una transizione verso la povertà. Ma mentre noi ci sforziamo di differenziare la plastica e spegnere le luci, i grandi inquinatori continuano a fare affari come al solito. Il report 2023 di Oxfam rivela che il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile di circa il 50% delle emissioni di CO₂. E noi dovremmo credere che siano proprio loro a salvarci?
La lotta al climate change, così com’è stata gestita finora, non è un movimento serio. È una cialtronata, un fenomeno di moda spacciato per impegno sociale, utile solo a riempire le tasche dei pochi e a placare le coscienze dei molti. BlackRock, JP Morgan e compagnia cantante lo hanno capito: non c’è ritorno economico nell’essere ambientalisti di facciata. E forse è il momento che lo capiamo anche noi, smettendo di credere alle favole verdi raccontate dai lupi travestiti da agnelli.
Se il clima è davvero la sfida più importante del nostro tempo, è ora di affrontarla con serietà e coraggio, non con slogan e greenwashing. Ma a giudicare dai fatti, il futuro sembra più grigio che verde.