di Nicoletta Toselli
Antonio Artese, pianista, compositore e arrangiatore che ha vissuto fra l’Italia e gli Stati Uniti, racconta la sua esplorazione stilistica.
"Two Worlds", i due mondi. Un riferimento ai tuoi due mondi musicali? Ai tuoi studi?
Il titolo dell’album è un po’ la sintesi dei mondi musicali in cui ho sempre vissuto, quello del jazz e della “cosiddetta” musica classica. Ci sono naturalmente anche i mondi della improvvisazione e della composizione strutturata, e delle due culture che ho frequentato: quella americana e italiana. Ma il riferimento più importante è quello per l’appunto ai miei studi musicali, in cui ho cercato di mantenere “bilanciati” il jazz ed una formazione classica rigorosa, in termini di tecnica pianistica, repertorio e prassi interpretativa.
Un po' come Bill Evans che amava anche Debussy e Ravel, quali ascolti hanno influenzato la tua passione per la musica?
Chiunque abbia una sensibilità musicale non può non amare altri generi musicali… a prescindere da quello in cui si trova più a suo agio nell’esprimersi. George Gershwin incontrò Ravel a New York e scoprì che l’ammirazione era reciproca e che entrambi erano a conoscenza di cosa stava succedendo musicalmente in America e in Europa. Trovo che la nostra sensibilità si formi attraverso quello che ascoltiamo e a cui siamo esposti. Io ho avuto la fortuna di aver ascoltato tantissima musica durante i miei anni primi anni al Conservatorio… Oltre a Chopin, il mio primo amore per il pianoforte, ho ascoltato a fondo Prokofiev, Rachmaninov, Mahler e tantissimo Skrjabin, che sarà in seguito oggetto della mia tesi di dottorato. Poi sono venuti Mozart e Beethoven, Brahms, Schumann e Schubert, i classici, insomma. E nel jazz tantissimo Bill Evans, Chick Corea, Antonio Carlos Jobim, e Coltrane. Ascoltare è sempre stato per me piacere puro, fonte di scoperte e riflessioni. Credo che questo si stratifichi in noi e ci fa diventare quello che siamo musicalmente.
Come nasce questo disco? Parlaci delle tue prestigiose collaborazioni.
Two Worlds è la concretizzazione in un progetto discografico di una serie di brani composti e arrangiati per alcuni concerti, in particolare quello che ho tenuto il 22 febbraio 22 a Santa Barbara. Ho visto che i brani funzionavano, avevano una loro logica e vita interna, e trovavano una eco positiva nel pubblico. Così al ritorno dal viaggio in California ho deciso di chiamare Stefano Battaglia e Alessandro Marzi e registrare il tutto, un po’ per lasciare un segno, una traccia “mnestica” direbbe Freud, prima che il progetto mutasse o addirittura svanisse. Per le collaborazioni che mi hanno influenzato profondamente, ho avuto il piacere e la fortuna di suonare con il leggendario clarinettista Bill Smith, con cui ho registrato un disco in quartetto, rimasto sul master e mai pubblicato. Tantissimi gli altri colleghi con cui ho condiviso il palcoscenico sia per il jazz che per la musica classica tra cui Maurizio Giammarco, Mirco Mariottini, Lello Pareti e tanti altri.. Mi colpisce sempre l’affetto e l’impegno creativo che ognuno di loro mette nel suonare insieme.
Quanto conta la tua formazione nella tua professione oltre al talento?
Il talento è indispensabile quanto la formazione…Bisogna studiare tanto e bene, incontrando possibilmente le persone giuste che abbiano a cuore il nostro sviluppo creativo, senza secondi fini. Una formazione rigorosa, quale quella che ho avuto la fortuna di avere, e che ho cercato anche dopo il diploma del Conservatorio perseguendo un dottorato in musica in California, permette di definire meglio chi siamo musicalmente e creativamente. Ci dà gli strumenti per poter esprimerci, ci apre degli orizzonti, ci interconnette con i mondi - più di uno naturalmente - in cui ci veniamo a contatto (quello della musica, dell’arte, della creatività, della sopravvivenza economica, della resilienza come artisti, dell’impegno politico). Oggi tutti i musicisti jazz della nuova generazione che sono agli apici della loro carriera hanno una solida formazione, oltre che ad uno smisurato talento. Possiamo discutere su come e quali siano le migliori strade per ognuno di noi, ma imparare è un “continuum” nella vita di un artista. Bisogna continuare ad imparare sempre, lasciando aperta la porta alla curiosità e alla conoscenza. Ars longa, vita brevis, diceva Seneca.
Traspare un riferimento importante a Bill Evans: se dovessi suggerire a un ascoltare, magari giovane, che non ha mai ascoltato questo leggendario jazzista, quale dei suoi dischi o brani proporresti?
È molto difficile scegliere alcuni album tra la discografia di un artista che mi è particolarmente a cuore, per la sua storia personale, la sua sensibilità, e la rivoluzione del ruolo del piano e del trio nel Be-Bop. Fondamentali direi i lavori con il primo trio, con Scott La Faro e Paul Motian, Portrait in Jazz e Waltz for Debbie (live). Suggerirei anche The Solo Sessions (due dischi) e Alone, che ha vinto anche un Grammy Award, per poi arrivare ai lavori con il trio con Eddie Gomez e Marty Morell. Inoltre ad un giovane che voglia accostarsi a questo immenso musicista, proporrei il bellissimo libro di Enrico Pieranunzi, uno dei più grandi pianisti Italiani di tutti i tempi, che si intitola Bill Evans - The Pianist as an Artist, un racconto appassionato e profondo in tanti aspetti.
Prossimi obiettivi? Cosa bolle in pentola?
L’obiettivo a breve termine è quello di portare questo progetto discografico in tour quest’estate, per creare un continuum tra musica registrata e concerti dal vivo, che per fortuna sono ripresi. Sto pensando poi ad una raccolta di composizioni per piano solo, per una pubblicazione editoriale e un disco, che si intitolerà UNFILTERED, una specie di diario intimo raccontato al pianoforte senza filtri.
foto di Biancalisa Nannini