di Monica Vendrame
C’è una data, nel nostro calendario civile, che ha il potere di dividere e di unire, di scaldare gli animi e, insieme, di far riflettere in silenzio: è il 25 aprile, la Festa della Liberazione. C’è chi la vive come un rito stanco, chi la contesta apertamente, chi la celebra con le lacrime agli occhi. Ma dietro ogni bandiera, ogni coro, ogni polemica, c’è una verità che resiste: l’Italia ha scelto la libertà. E lo ha fatto nel momento più buio.
Non fu una libertà donata, ma conquistata. A mani nude. Con la paura nel cuore e il coraggio sulle spalle.
Storie che hanno camminato sui nostri sentieri
A Genova, dove oggi passiamo sotto i portici tra un autobus e un caffè, nel 1945 si consumò un atto unico nella storia europea: la resa dell’esercito tedesco direttamente ai partigiani italiani. Senza bisogno degli alleati. A guidare la trattativa, tra mille rischi, fu il CLN genovese con uomini come Remo Scappini e Antonio Canepa. E furono centinaia le donne liguri che, nell’ombra, fecero la loro parte: staffette, infermiere, messaggere, madri che nascondevano giovani ricercati nelle cantine.
Una di queste donne si chiamava Teresa Mattei, nata a Genova, poi diventata la più giovane eletta all’Assemblea Costituente. Diceva: “Resistere non significa solo combattere. Significa anche non dimenticare.” E lei, non ha dimenticato mai.
Ma la Resistenza non fu solo sulle montagne del Nord. Anche al Sud, dove il fronte era passato lasciando rovine e fame, si respirava il vento della libertà.
Calabria: la Resistenza taciuta
Nella provincia di Cosenza, decine di giovani partirono per raggiungere i reparti partigiani al Nord. Non lo fecero per ideologia, ma per dignità. Alcuni venivano dai paesi della Sila, altri da Rogliano, Acri, San Giovanni in Fiore. Portavano con sé la speranza dei padri braccianti, che avevano visto il mondo solo attraverso la zappa e il rosario.
C’è una storia, poco nota, che riguarda un prete di Pedace, don Francesco, che nel '44 nascose due giovani antifascisti ricercati. Lo fece senza proclami. Solo per fede e coscienza. Nessuna medaglia, nessuna foto in bianco e nero. Solo la voce degli anziani del posto che ancora ne parlano sottovoce.
E poi c’è il coraggio delle donne del Sud, come Rosa, che a Rossano si rifiutò di cedere la sua casa ai soldati tedeschi. La trascinarono via, la picchiarono. Ma lei non cedette. “Sono contadina, ma libera”, disse al maresciallo. Quella frase è rimasta nel ricordo del paese, come un testamento orale tramandato da nonna a nipote.
Oggi, 25 aprile, queste storie non le troverete nei titoli a effetto. Non fanno rumore. Non fanno comodo a chi cerca lo scontro politico. Ma sono vere. E sono la colonna vertebrale di un’Italia che, nonostante tutto, ha scelto di non inginocchiarsi.
Raccontare il 25 aprile non è un atto di schieramento, ma di responsabilità. Significa tenere accesa una fiammella di memoria che rischia di spegnersi nel vento della superficialità e del disincanto. Significa ricordare che la libertà non è mai scontata.
Oggi più che mai, in un mondo che si affretta a scegliere da che parte stare senza più ascoltare le storie, servono parole che uniscano. Che mettano insieme il silenzio delle madri del Sud e il fuoco dei ragazzi del Nord. Che parlino di speranza, senza ignorare le ferite.
E allora, oggi, non celebriamo solo una data. Celebriamo i volti senza nome, le voci che il tempo ha quasi cancellato, le mani he tremavano ma non indietreggiavano, che hanno scritto la parola “libertà” senza sapere di stare facendo la Storia. Celebriamo un’Italia imperfetta ma viva, che ogni anno, il 25 aprile, trova la forza di ricordare che la libertà non è un’idea astratta: è una madre che riabbraccia un figlio, un vecchio contadino che rivede il suo paese libero, un ragazzo che sceglie di pensare con la propria testa.
Perché finché qualcuno continuerà a raccontare queste storie, nessuna Resistenza sarà mai davvero finita.