La Corte: "Pianificazione lucida, ma imperizia nel delitto". Perché l’ergastolo resta l’unico verdetto possibile
di Monica Vendrame
Roma – “Crudeltà” non è sinonimo di efferatezza. “Inesperienza” non equivale a inconsapevolezza. Sono queste le premesse – tecniche, controintuitive – alla base della sentenza di condanna all’ergastolo per Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, i cui 300 capitoli di motivazioni, pubblicati mercoledì, hanno scatenato un uragano di polemiche.
La Corte d’Assise di Padova ha riconosciuto tutti gli elementi per la massima pena: premeditazione, motivi abietti («un’arcaica concezione del rapporto sentimentale basata sul possesso») e lucidità criminale («volontà di costruire menzogne postume»). Eppure, a catturare l’attenzione dei media è stata l’esclusione di un’aggravante: la crudeltà.
L’articolo 61 del codice penale definisce “crudeltà” gli atti volti a infliggere «sofferenze aggiuntive, non necessarie alla morte». Un concetto diverso dalla ferocia istintiva. Nel caso Turetta, spiegano i giudici, le 75 coltellate non furono un supplizio pianificato, ma il frutto di imperizia omicida: l’incapacità di portare a termine rapidamente un delitto preordinato. Un paradosso che ha trasformato l’aggressione in un massacro, ma che – tecnicamente – non rientra nella crudeltà giuridica.
«Non è una riduzione di responsabilità», chiarisce il penalista Carlo Alberto Zaina. «Al contrario: dimostra che Turetta ha agito con freddezza, sbagliando persino a uccidere. L’ergastolo è la risposta a una pianificazione tanto lucida quanto fallimentare».
A rendere inappellabile la condanna è il riconoscimento dei motivi abietti, l’aggravante più severa nel sistema penale italiano. La sentenza descrive un uomo ossessionato dal controllo, che ha trasformato il rifiuto di Giulia in una proprietà da annientare. «Ha agito per impedire la libertà della vittima, non per passione», si legge nelle motivazioni. Un dettaglio cruciale: certifica che il femminicidio non è mai un “raptus”, ma l’esito di una cultura tossica.
La difesa aveva tentato di dipingere Turetta come un ragazzo «sprovveduto», travolto dall’emotività. La Corte ribalta la tesi: la sua goffaggine criminale (la fuga maldestra, il tentativo di occultare il corpo) è la prova di una mente calcolatrice. «Voleva simulare un rapimento, non nascondere un delitto passionale», scrivono i giudici. Persino l’essere stato «inesperto nel mentire» diventa un indizio di colpevolezza.
Mentre il padre di Giulia, Gino Cecchettin, invoca «chiarezza, non vendetta», molti giornali hanno trasformato la sentenza in uno scontro tra tecnicismi e senso comune. Titoli come «Uccise senza crudeltà» rischiano di oscurare la verità: Turetta è stato condannato come omicida premeditato, sano di mente e mosso da futili motivi. Elementi che, nel loro insieme, rendono l’ergastolo l’unico esito possibile.
La sentenza su Turetta non è solo l’epilogo di un processo, ma un riflesso distorto della società che l’ha prodotto. Ci costringe a fare i conti con un vocabolario che divide invece di unire: quando i giudici scrivono “crudeltà”, il pubblico legge “assoluzione”, e il rischio è che una parola tecnica diventi un boomerang mediatico. Servirebbe una giustizia capace di tradursi, senza tradirsi.
E poi c’è l’inganno più subdolo, quello che trasforma un femminicidio in una storia d’“amore malato”. Turetta non amava Giulia: voleva possederla. E ogni volta che confondiamo il controllo ossessivo con la passione, regaliamo un alibi a chi uccide per non perdere il proprio status di padrone.
Infine, il ruolo dei media: titoli come «Uccise senza crudeltà» non sono solo imprecisi. Sono pericolosi. Perché trasformano una condanna esemplare in un dibattito da bar, svuotando la realtà delle sue ombre. Giulia meritava verità, non hashtag.
Una verità che la sentenza, al di là delle polemiche, ha il merito di aver scolpito nella legge. «Giulia non è stata uccisa da un mostro, ma da un uomo ordinario convinto di poter decidere della vita altrui», ha scritto ieri la sorella Elena su Instagram. Proprio questa ordinaria, feroce normalità è ciò che il tribunale ha certificato: non un raptus, non una follia, ma la lucida convinzione che una donna possa essere “proprietà” da difendere, persino a costo di spezzarla.